La responsabilità ambientale è un tema sempre più sentito e un’opportunità di crescita e rilancio dell’economia. Può l’emergenza Covid mettere in crisi questo approccio?
Corporate Social Responsibility: produrre in maniera consapevole
In una comunicazione datata 2011, la Commissione Europea definiva la Corporate Social Responsibility (CSR) o Responsabilità Sociale d’Impresa, nei seguenti termini: “la responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”. Un’azienda – qualsiasi azienda, ancor di più se di grandi dimensioni – ha delle responsabilità che vanno al di là dello sviluppo economico: non è sufficiente che produca, è importante che lo faccia in maniera consapevole.
La CSR implica uno sviluppo sostenibile, una politica aziendale che sia in grado di perseguire gli obiettivi economici senza tralasciare quelli sociali e ambientali. Questi ultimi confluiscono nella Responsabilità ambientale, un tema che sta acquistando sempre più importanza nel corso degli anni.
Un sistema produttivo che ambisca a essere sostenibile deve impegnarsi a rispettare una serie di normative che definiscono dei valori limite rispetto ai consumi energetici e alle emissioni in atmosfera. Esse includono dei parametri che tengono conto di diversi aspetti del sistema aziendale: produzione, ideazione dei prodotti, packaging, trasporto, smaltimento, prassi ambientali nei punti vendita e consumi energetici. A ciò si aggiunge l’educazione di dipendenti e consumatori rispetto a questi temi.
Dall’economia lineare a quella circolare
Negli ultimi anni la questione ambientale sta iniziando ad acquisire l’attenzione che merita. Movimenti internazionali – uno su tutti, il Fridays for Future di Greta Thumberg – hanno riportato il tema sotto i pubblici riflettori e nelle agende dei governi.
Governi che iniziano a considerare soluzioni più concrete per fare fronte a problemi che derivano primariamente dall’aumento della popolazione e dalla mancanza di materie prime. Sullo sfruttamento di queste ultime si basa il sistema produttivo attuale, quello lineare. Tuttavia – soprattutto nei paesi europei -sta prendendo piede la logica circolare. La Ellen MacArthur Foundation, fondazione statunitense che ha come scopo quello di accelerare la transizione verso la circular economy, definisce l’economia circolare come un’economia pensata per potersi rigenerare da sola.
Alla base della circular economy ci sono tre elementi fondamentali:
- Riduzione dell’impiego di materia prima, optando per la progettazione di prodotti con una obsolescenza a lungo termine e una manutenzione semplice;
- Riutilizzo dei prodotti per evitare che divengano scarti da recuperare, ma possano vivere una seconda vita;
- Riciclo per recuperare le materie prime che divengono materie prime seconde, con le medesime caratteristiche di quelle originarie.
Cosa distingue l’approccio circolare da quello lineare?
Nell’economia lineare il ciclo del prodotto termina con il consumo: il prodotto diventa rifiuto e dà avvio a una catena infinita di estrazione, produzione, consumo e smaltimento. L’economia circolare invece si basa su una logica di riciclo e recupero all’interno di un sistema in cui gli scarti di qualcuno diventano risorse per qualcun altro, anziché esaurirsi in sé stessi.
Nonostante il concetto di economia circolare non sia nuovo – risale agli anni ‘70 – si tratta comunque di un tema di estrema attualità, anzi, per certi aspetti quasi futuristico: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta nel 2015 dai governi di 193 Paesi membri dell’Onu, prevede infatti tra le altre cose molti sforzi in questo senso. Il punto 12 questo impegno internazionale prevede infatti la garanzia del raggiungimento di “modelli di consumo e produzione sostenibili”, che significano tra le altre cose una gestione sostenibile e un utilizzo efficiente delle risorse naturali, il dimezzamento dello spreco alimentare e una sensibile riduzione della produzione dei rifiuti.
Quando il Green Marketing diventa Green Washing
La scelta di un codice di condotta attento all’aspetto ecologico è prima di tutto un’assunzione di responsabilità aziendale, ma – di riflesso – anche un ottimo investimento sull’immagine pubblica. Perché? La sensibilità media rispetto ai temi ambientali cresce, dunque i consumatori sono più attratti dai brand che si impegnano e dimostrano di avere a cuore la tutela del pianeta. Ecco perché molte aziende hanno modificato la loro strategia comunicativa per adattarla alle nuove politiche ecologiche.
Il green marketing – cioè la commercializzazione di prodotti che le aziende ritengono essere ecologicamente validi per i più diversi motivi – è dunque non solo una scelta produttiva e di buone prassi, ma anche una strategia promozionale al passo con i tempi e con le esigenze del mercato. Il complesso di strategie messe in atto dalle aziende per minimizzare l’impatto ambientale, riducendo gli effetti negativi da una parte e massimizzando i benefici sull’ambiente dall’altra, non si riduce alla creazione di qualche prodotto o di una linea di prodotti ecologici. Una buona strategia di green marketing richiede all’azienda di compiere scelte in linea con l’obiettivo green nel suo complesso: processi produttivi sostenibili, smaltimento responsabile dei rifiuti, impiego di un packaging riciclabile, ma anche interventi a sostegno di una maggiore consapevolezza da parte dei consumatori.
Il rischio di un green marketing non veramente interiorizzato, ma adottato nei suoi aspetti superficiali solo per andare incontro a una preferenza del mercato, è quello di diventare utilitaristico e fine a sé stesso, scadendo nel green washing. Con green washing si indica la messa in atto di pratiche scorrette da parte di aziende che promuovono un’immagine positiva di loro stesse nei termini di una sostenibilità ambientale che non trova riscontro nei fatti. Le loro azioni vengono alterate al solo scopo di attirare consumatori. Ciò si rivela controproducente nel momento in cui questi ultimi realizzano la poca accuratezza di informazioni o addirittura la falsità delle stesse: il green washing non solo non porta alcun beneficio all’ambiente, anzi può ottenere l’effetto opposto spingendo anche un consumatore volenteroso di fare la propria parte a utilizzare prodotti che di eco non hanno nulla, ma può essere dannoso anche per le aziende stesse, causando danni importanti in termini di brand reputation. Anche nel caso in cui sia fatto in buona fede.
Un esempio noto di green washing è quello che ha visto protagonista San Benedetto, costretta a pagare una multa di 70mila euro per pratiche commerciali ritenute scorrette. Il suo slogan “meno plastica, più natura” è stato infatti considerato ingannevole dal momento che non era dimostrabile che le bottigliette così reclamizzate contenessero davvero il 30% di plastica in meno come sostenuto, né che vi fosse un risparmio energetico associabile alla produzione delle stesse.
Aziende Green
Se il green washing è un rischio reale (e a volte anche una spregiudicata politica commerciale consapevole), esistono dall’altra parte anche casi esemplari di green marketing, con aziende che si sono distinte per il loro impegno ambientale attraverso prodotti e soluzioni innovative.
Lush, produttrice di cosmetici naturali, ha dato un segnale fortissimo nella lotta contro la plastica: laddove possibile, ha rinunciato completamente al packaging dei prodotti. Per gli altri ha scelto di optare per materiali riciclabili e le bottigliette utilizzate come contenitori sono realizzate con materiale riciclato al 100%. A Milano nel 2018 è stato inoltre aperto il primo Lush Naked Shop in cui sono stati messi in vendita solo prodotti “nudi”, privi di qualsiasi tipo di packaging.
Altro esempio virtuoso è quello di McDonald’s Corporationche ha stabilito un obiettivo ambizioso: entro il 2025 tutti gli imballaggi dei suoi prodotti dovranno provenire da fonti riciclate, certificate e 100% rinnovabili. Inoltre si dovrà raggiungere il riciclaggio autonomo della totalità dei packaging gettati nei suoi punti ristorante.
Un terzo caso che possiamo citare è quello di Adidas che, in collaborazione con Parley for Ocean,ha ideato una linea di prodotti creati recuperando rifiuti di plastica. L’obiettivo è di arrivare a utilizzare solo poliestere riciclato entro il 2024.
Gli esempi di imprese grandi e piccole che, a diverso titolo e nei più disparati modi, si stanno mettendo alla prova nel mondo del green marketing sono sempre più numerosi e testimoniano la sempre più grande attenzione a tutti i livelli per questo tema.
La sostenibilità ambientale in Italia
A livello di sostenibilità ambientale, l’Italia occupa una buona posizione nel quadro europeo. Nel 2015 il nostro paese era tra le 193 nazioni firmatarie dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Se è vero che lo sforzo italiano non è ancora sufficiente a raggiungere gli obiettivi definiti dall’Agenda, è anche vero che molti passi significativi sono stati fatti.
Nel rapporto 2020 dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis) – che ha come scopo una maggiore sensibilizzazione circa i temi ambientali – emerge che l’Italia è ai vertici europei per ciò che concerne la produzione elettrica e l’agricoltura biologica. Sono aumentati gli investimenti italiani (sono 355.000 le imprese coinvolte) in prodotti e tecnologie tese a ridurre l’impatto ambientale e i risultati sono evidenti: tra il 2010 e il 2017 le emissioni di gas serra sono diminuite del 15%. Anche la percentuale di riciclaggio è salita, passando dal 36,7% al 49,4%.
Emergenza sanitaria e Green Economy
Il 2020 è stato sotto diversi punti di vista un anno particolare, che fungerà probabilmente da spartiacque tra il prima e il dopo Coronavirus. L’emergenza sanitaria da una parte ha infatti contribuito a dare visibilità alla questione ambientale:il lockdown ha avuto un impatto positivo sull’ambiente in termini di abbassamento dei livelli di inquinamento e di rigenerazione della flora e della fauna. Copernicus Sentinel – 5P – un satellite artificiale in orbita attorno alla Terra per effettuare il telerilevamento della superficie terrestre – ci mostra come le concentrazioni di biossido diazoto (NO2) nell’atmosfera siano calate drasticamente dall’inizio dell’anno per via dell’applicazione delle normative di sicurezza imposte dal Virus. Città come Milano e Roma hanno registrato un calo del 45% di NO2.
Tuttavia questi risultati rischiano di essere spazzati via. Il rischio, in un’economia che cerca di risollevarsi dopo i danni causati dalla pandemia, è quello di mettere da parte le misure ambientali in nome di una veloce ripartenza e forse anche a causa dell’incertezza economica della popolazione.
Eppure il rilancio dell’economia non dovrebbe essere slegato dalla green economy. Edoardo Ronchi, presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile – considerata un punto di riferimento per i principali settori e protagonisti della green economy – riporta la nostra attenzione sul tema ambientale con una considerazione interessante: “Quando le spese sono tante e le risorse sono sempre limitate, qualche rischio c’è di mettere da parte la rivoluzione green. Adesso bisogna stare attenti a non generare costi successivi maggiori. Quando si trascurano gli impatti ambientali sembra che risparmi oggi ma in realtà spendi molto di più domani”.
La questione ambientale deve essere insomma considerata come uno strumento di crescita economica, non un ostacolo alla stessa. L’agenzia Internazionale per le energie rinnovabili (IRENA) – organizzazione internazionale che incoraggia l’adozione di energie rinnovabili in un’ottica di sostenibilità – ha stimato che se si investisse massivamente sulle energie rinnovabili, si creerebbe un’occupazione pari a 42 milioni di nuovi posti di lavoro, il quadruplo rispetto a quelli attuali. Inoltre la crescita globale ne beneficerebbe per un totale di 98mila miliardi di dollari.
Insomma, non investire nella green economy, in un momento di crisi, può rivelarsi vantaggioso in un primo momento, ma avrà ripercussioni negative nel lungo termine. Cosa accadrebbe se la pandemia di oggi fosse la crisi climatica del domani?